martedì 28 ottobre 2008

Ciao, me ne vado a Torino...Fogli dei giorni 2002-2008



ARTIFACTS
4 - 30 novembre 2008
La Galerie - Mirafiori Motor Village
Piazza Cattaneo 9, Torino
Dal 4 al 30 novembre 2008 il Mirafiori Motor Village ospita la mostra Artifacts, curata da Daniela Trunfio ed inserita nel calendario delle manifestazioni di Contemporary. L’esposizione fa parte del Progetto di Ricerca AlbumdiFamiglia, sostenuto dalla Fondazione CRT e coordinato da Mario Renosio per l’ISRAT e Luisella d’Alessandro, direttrice della Galerie, e prende in considerazione gli sviluppi e le evoluzioni che l’oggetto “Album di Famiglia” ha subito nella più recente contemporaneità artistica.
Fin dal suo nascere, l’album era un work in progress per fermare la memoria e destinarla alla stretta cerchia dei parenti/eredi; oggi viene invece ricostruito a posteriori, secondo una lettura operata nell’assemblaggio dei reperti, e il prodotto artistico che ne deriva diventa patrimonio di tutti coloro che fruiscono l’opera.
L’album così “ricostruito” viene vissuto, a seconda degli artisti, come mezzo per ripercorrere la propria storia individuale; o per evidenziare il paradigma di lettura di una generazione, di uno spaccato sociale, e a volte anche razziale; o, infine, per sviscerare problematiche riconducibili agli archetipi della famiglia: la complessità dei rapporti e delle relazioni, il sottaciuto o meglio quanto di complicato, e inconscio gioca nella banalità di certi riti e dinamiche familiari.
L’oggetto album muta nei suoi contenuti, nella sua fruizione: da privato si fa collettivo; muta nelle sue rappresentazioni spaziando dalla performance, al cinema, video, scultura, web, pittura e ovviamente fotografia.
Il risultato sono installazioni, dipinti, fotografie e performance che interpretano l’album di famiglia attraverso reperti, ricordi o anche solo la memoria dei racconti.
L’azione è mirata alcune volte a preservare e ricostruire le testimonianze, altre ad interpretare e perfino a inventare la storia del passato, ma la finalità resta la medesima: definire un’identità nella quale riconoscersi. In un periodo in cui l’identità è un fragile vessillo che aiuta a distinguersi e ritrovarsi, il recupero delle proprie radici è il primo passo verso la definizione di una specificità che può essere individuale e collettiva come sociale e territoriale. Studiare il passato per capire il presente: questo è dunque l’intento degli artisti in mostra.

Gli artisti in mostra
Serafino Amato, Delphine Balley, Maggie Cardelús, Giuliano Cocco, Cristiano De Gaetano, Uwe Dressler, Giuliano Galletta, Guerrieri/Dallavalle, Huang Yan, Francesco Lauretta, Salvatore Licitra, Glenn Ligon, Ugo Locatelli, Fulvio Magurno, Sally Mann, Alina Marazzi, Kristine McCarroll, Malekeh Nayiny, Sylvie Romieu, Ferdinando Scianna, Gabriele Trabia.

Serafino Amato, Italia - installazione
I suoi Fogli dei giorni. Istogrammi di vita quotidiana, sono una biblioteca/libreria (e come tale si presenta) da cui sfilare immagini: luoghi, oggetti o persone che evocano parole e segni.
“Questo lavoro è cominciato in realtà assai prima che iniziassi a fotografare con la piccola macchina tascabile comprata per l’occasione. Ho ripreso “cose così”: voglio dire, cose che non necessariamente avessero per me valore particolare da un punto di vista visivo”.

ARTIFACTS
4 - 30 novembre 2008
La Galerie - Mirafiori Motor Village
Piazza Cattaneo 9, Torino
Dal lunedi al sabato: 9.00-19.30 orario continuato
Domenica 9.00-12.30 / 15.00-19.30
Ingresso libero tel. 011.0042000
8 novembre: Apertura straordinaria serale in occasione dell’appuntamento di “Saturday Art Fever”.

domenica 22 giugno 2008

Salutare natica 8


“Un errore così non era da fare!”. La procedura è standard. Fra riservato, riservatissimo e segreto ci sono una serie di procedimenti obbligatori affinché la comunicazione sia effettivamente riservata, riservatissima o segreta. La mia comunicazione segreta l’ho declassata a riservatissima, il che in alcuni casi non è che provochi guai, talvolta si fa apposta per depistare, una certa discrezionalità esiste, ma non in questo caso. Ho sbagliato procedura e ho declassato la riservatezza di una informazione delicata e non posso ora valutarne le conseguenze. Sul piano disciplinare ce ne saranno sicuramente, giusto il tempo che la faccenda venga chiusa. Saprei stendere un toro con le mani, so parlare quattro lingue, strisciare dove pochi possono, immergermi in profondità. So infiltrarmi, sono stato addestrato all’uso delle armi ma nell’uso del computer continuo a fare errori. Non è facile mantenere un segreto, bastasse stare a bocca chiusa! Mandare un’informazione in rete e proteggere il segreto vuol dire applicare una procedura così complicata, e ogni volta originale, che ho finito per sbagliare; ed è evidente che non puoi farti aiutare, vista la materia, e neanche consultare il manuale, dal momento che non c’è. Ho combinato un casino stamattina. Ma da oggi si cambia. Altro che pomate e contorsionismi allo specchio per vedere se va meglio. Per pura fortuna ho trovato quello che dovevo cercare. Ora potevo far passare per grande capacità investigativa la fortuna. Ho messo in rete un’informazione a disposizione di più di cinque persone, che sono, in questo campo, una folla. Stamattina mi sono messo in tuta e ho fatto 20 chilometri di corsa come non li facevo da tempo e i polmoni mi bruciavano e sentivo la pancetta rimbalzare, come un impiegato lanciato al galoppo. Troppa discrezionalità mi ha ridotto in questo stato, mi hanno lasciato eccessiva libertà. Sono ancora paonazzo. Che perfezione di casualità, ogni cosa al suo posto. Secondo giorno: nessun contatto: né per vie telematiche, né per altre vie. Sono pronto per agire in attesa del mio gruppo. Corro da tre quarti d’ora, e sono sudato, ma è molto meglio di ieri. Ripenso al mio errore come una questione di porte: ho lasciato una porta aperta e dovevo chiuderla. Mi riviene in mente l’uomo della metro, la sua pelle, lo stupore che avevo provato nel ritrovarmelo davanti negli uffici, me ne aveva aperte due di porte quella mattina, e senza una parola, solo un sorriso congelato; forse uno straniero? Sto calando un po’ di ritmo, ma forse questa è una leggera salita, un “falso piano”... che poi vuol dire depistaggio. Oggi non sento di essere un bisonte in corsa, mi sento già più compatto di ieri. Disciplinato stavolta, con abbigliamento tecnico, anche se con il fiatone. Mi mantengo sulle centottanta pulsazioni e decido di andare avanti così per altri dieci minuti. Giro l’angolo e sono sul vialone, alcune macchine mi passano accanto veloci, troppo vicine per non imprecare. Sono pronto, e i muscoli cominciano a svegliarsi dal torpore. Sono giorni che non passo dalla mia tabaccaia, che non mi fermo nel giardino a contemplare il mio nome accendersi al tramonto. Ma come posso avere fatto tutto questo, lasciarmi andare in questo modo, comportarmi come farebbe un poeta, per settimane stare a contemplare ogni cosa con uno sguardo fiacco e indebolito sulle gambe, dolente nel cuore e infiammato nei glutei. Sette minuti, ma forse mi allungo di nuovo a 10, come se gli ultimi tre non fossero passati. Una processione di ricordi, di tempo perso; digrigno i denti. Queste settimane, come se non fossero mai passate! Quattro minuti ancora, ma ne farò dieci, come se i sei non fossero mai passati e mi sembra in questo modo di recuperare una settimana. Sulle centosettanta pulsazioni, ripenso alle macchine che corrono sfiorandomi. Strano, c’è qualcosa di poco chiaro, ma il mio telefono resta muto. Due minuti, ma non posso far finta che questi non siano passati, ne farò altri otto e questi ci saranno stati, come ci sono state settimane di silenzio e di prurito. Zero minuti e ora è come se mi fossi fermato, ma continuo a correre, per altri sei minuti almeno. Mi aspetta il viale, a sinistra la strada e a destra il muraglione, ma come svolto, la vedo correre urlando verso di me. La mia corsa rimane incastrata nelle gambe e mi blocco floscio, sudato, affannato. La prendo con le mani, le tengo le braccia. Lei in bosniaco urla piangendo, disperata grida solo nella sua lingua. “Me lo hanno preso, me lo hanno preso, il bambino, lo hanno preso insieme a lui”.
E’ sfinita, senza rispondere abbandona il suo corpo fra le mie braccia, mescolando le lacrime al mio sudore.
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Salutare natica 7


Faccia a faccia non eravamo due sconosciuti. Lei era sorpresa di vedere qualcuno sbucare d’improvviso da quella “boscaglia”, e io ero altrettanto sorpreso di rivedere la cantante della metropolitana prodursi nello stendimento di indumenti, che ad occhio e croce erano di un bambino e di un uomo robusto: pantaloni e camicia. Sorpreso, con un sorriso, le dissi subito: “Kosovara?”.
“No! Sì”.
“Sì o no?”, le dissi, producendomi in un sorriso ancora più vasto.
“Sì. Devo andare, mi scusare”.
Il mio abbigliamento era totalmente inadatto ad ogni esplorazione e quindi lei poteva aver unicamente pensato ad uno che s’era perso nella speranza di fare una scorciatoia.
“No, aspetti, venga qui”, le dissi. Si voltò, ma senza rispondermi. Con un’espressione corrucciata andò verso la baracca e chiuse la porta. Ero affaticato molto più di quanto il percorso che avevo fatto meritasse. Fu allora che, seduto sul moncherino di un albero potato, avvertii che ero osservato dall’interno della casa. Lo sguardo di un uomo, di sbieco, arrivava a colpirmi, era uno sguardo preoccupato, preciso: militare, come quello di un cecchino, e infatti ero centrato come nel mirino della lunga canna di un fucile. Eppure nessun moto istintivo di protezione scattò dentro di me. L’elementare rudimento, la più essenziale, fondamentale regola dell’uscire immediatamente dalla traiettoria, non trovava risposta nel mio corpo, come se fosse stato il corpo di un altro il mio, come se provasse un solletico piacevole a restare nella mira di uno straniero nascosto dietro una finestra. Fu proprio il mio atteggiamento, ingenuo forse, l’atteggiamento di un cacciatore stanco e senza fucile, il fare di uno che sì è perso per davvero -che altro poi non ero in quel momento della mia vita, passata a spalmar pomate sul culo, a mangiare cibi cotti a vapore e a lavar mutande in acqua separata, a ricordare storie inutili di stupidi insetti inghiottiti da un bambino, di uno incapace di attraversare portoni, piuttosto che quello di uno allenato alla reazione immediata e meditata- che probabilmente indusse la donna e poi l’uomo ad uscir di casa. Ebbi tutto il tempo di vedere la donna in viso, era assai più bella di come mi era sembrata solo un attimo prima e di come me la ricordavo nel vagone della metropolitana. Vestita di nero, fasciata in una gonna di lana, mostrava una figura bellissima, le si intravedevano due bei seni sotto la maglia nera, abbandonati sul petto, un po’ distanti uno dall’altro, sorretti dai capezzoli turgidi. Lui, lo riconobbi subito, ma non mostrai sorpresa, né devo dire timore. Non mi ero mosso, quello che unicamente mi accadde, e fu la paura probabilmente a provocarlo, non fu affanno, ma un senso di improvvisa, grande stanchezza, tanto che sembrai loro sul punto di un malore.
“Signore, problema?”.
“No, nessun problema, mi sono perso”.
“Che?”.
“Perduto, lost, je ne trouve pas la route”, e stavo per dirglielo in serbo-croato, ma quello sarebbe stato pericoloso.
“Quella...” e la donna mi indicò un sentiero.
Quando mi alzai, mi accorsi che le gambe mi tremavano. Fu in quel momento che, sorridendo e ringraziando e incamminandomi e ancora voltandomi a ringraziare, mi tornò alla mente ogni singola parola del mio capo, con il tono preoccupato e perentorio con cui era stata detta. Avevo avuto davanti a me, esattamente, e solo per pochi secondi, lo “Yeti” dei Balcani, l’uomo che in parecchi avrebbero voluto mandare all’altro mondo, e altri, come il mio capo, che si sarebbero accontentati di saperlo lontano dall’Italia, ma già che c’era, a questo punto era da mettere in manette.
In testa avevo come un fuoco d’artificio. Che fortuna avevo avuto!
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mercoledì 21 maggio 2008

Salutare natica 6


“Carissimo, mi dica, come si trova nella mia città?”.
“Non sapevo fosse di quelle parti”.
“Come va? la trovo bene, mi faccia vedere”.
Ero abituato ormai, non mi procurava più imbarazzo slacciare il pantalone, abbassare ogni cosa e porgere le natiche in faccia al professore che, seduto sul suo sgabello, con una grande lente, esplorava ogni piega del mio sedere.
“Non male, c’è qualcosa qua e là, ma non male, mi aspettavo peggio”.
“Forse ho un poco esagerato”.
“Ma no, può essere molto fastidioso, e poi, lei, è davvero recidivo!”.
“Recidivo, recidivo”, ripetevo fra me e me. “Recidivo”. Doveva avere a che fare con qualcosa che mi aveva detto il capo.
“Lo sa dottore, anche io avrei bisogno di un bella lente d’ingrandimento, da un po’ di tempo mi soffermo su cose così piccole...”
Allora sospenda il..., metta solo una volta al giorno il..., prenda anche del..., un cucchiaio dopo i pasti, ma soprattutto camminare, cantare, fischiettare!”.
“Professore, posso farle una domanda? Da che cosa dipende quella malattia in cui la pelle del viso si disquama e prende un po’ di rosso e bianco fino alle guance? Penso si chiami psoriasi”
“Può avere diverse cause, ma guardi che le regalo, io non la uso più”. Da un cassetto tirò fuori una lente di ingrandimento.
Misi la lente davanti agli occhi e tutto quanto sparì alla mia vista fino a quando non avvicinai il palmo della mano.
Cominciavo a preoccuparmi, erano passati tre giorni e mi rimaneva oscuro il contenuto del discorso fattomi dal capo. Era la prima volta che mi capitava qualcosa del genere. Se fossi stato anziano, sarebbe stato un segno preoccupante di cedimento mentale, ma siccome vecchio non ero, doveva essere il segno di un cedimento di altro tipo, un cedimento assai grave, che ora mi metteva in seria difficoltà, se non in pericolo, addirittura. Indossavo la stessa giacca da diversi giorni e anche questo non era una cosa buona; cambiare d’abito frequentemente e stile di abbigliamento, era la norma di comportamento sempre consigliata e, considerata la mia vanità, quella che meno mi infastidiva. Certo, molto meno che mantenere un peso-forma o sottopormi ai soliti allenamenti, sempre in luoghi e orari diversi, se all’aperto, e in almeno tre palestre differenti di luoghi distanti fra loro, se al chiuso. Era stato proprio mentre stavo uscendo da uno di questi centri-fitness, che per un rapido movimento, la tasca della giacca aperta aveva urtato contro il cristallo della porta scorrevole. Il rumore secco e violento dell’urto di un oggetto metallico aveva spaventato anche me; mi sembrò un caso che la porta non fosse andata in frantumi; diverse persone si voltarono per guardare e io stesso mi voltai, sorpreso. Ero stato io, che uscendo non avevo lasciato tempo ai sensori della porta di mettere in funzione il meccanismo di apertura, così che non si era aperta in modo completo. Era stata la lente d’ingrandimento che avevo dimenticato nella tasca a sbatterci contro.
Mi ero infilato nel canneto per curiosità: perché camminare, sfiornado quegli alberi flessibili senza chioma, mi ricordava un romanzo letto quando ero adolescente. Volevo insinuarmi, almeno una volta, in un posto senza pensare troppo a quello che avrei potuto trovare. Una “giungla” vicino casa era una scoperta che non mi aspettavo di fare. Il terreno si faceva sempre più morbido, sentivo di camminare come su una spugna. Il rumore delle canne era secco, il mio ondeggiare, cercando fessure che non c’erano, spezzava rumorosamente la quiete. E chi ti trovo dall’altra parte del canneto? E che ci faceva lì, dall’altra parte del canneto, a cinquecento chilometri da dove l’avevo incontrata la volta precedente? Dove mi aveva portato la mia esplorazione l’unica volta in cui avevo dismesso i panni di testa di cuoio? Mi aveva portato alla precaria abitazione della cantante kosovara.
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04/08 Lui, vent'anni dopo, continua a sognare

lunedì 5 maggio 2008

Salutare natica 5



Aveva mostrato il tesserino di riconoscimento e superato il primo ingresso e subito aveva attraversato le pesanti porte blindate dopo che la tessera magnetica era stata letta dallo scanner per l’identificazione. “Non troppo diversamente da quello di un supermercato”, aveva riflettuto, ma la malsana associazione era durata un battito. La sua fiducia nella tecnologia stava vacillando? Un attimo quell’idea gli era venuta in mente, sufficiente per fargli cambiare umore. In fondo era inevitabile che le applicazioni più banali della tecnologia finissero nei supermercati. L’ascensore lo aveva posato al quinto piano, anche lì c’era una porta da attraversare dopo aver digitato un codice. Camminava sul velluto, era il lungo tappeto che copriva tutto il corridoio. Belle porte di legno chiaro sulla destra e sulla sinistra, un ambiente che sembrava anche esageratamente scandinavo. Bussare a quella porta gli aveva sempre procurato emozioni forti, fino al giorno in cui si era sentito sbattuto con una promozione in periferia. Dovevano aver applicato la logica della produttività e del profitto a un ufficio che, semmai, come auspicabile virtù da incentivare avrebbe dovuto avere la ponderazione, la discrezione, la misura. Mentre le nocche delle dita picchiettavano su quell’uscio senza scritte dorate o targhette o campanello e il legno massello risuonava sordo, sentiva un fuoco dentro infiammarlo. Era passato meno del tempo necessario perché qualcuno fosse già lì per aprire e anche meno del tempo che gli ci sarebbe voluto per abbassare la mano, che la porta era già stata aperta davanti a lui. A spalancarla era stato lo stesso uomo che gli aveva spinto il pulsante d’apertura nella metro, lo stesso, con il colorito paonazzo, che ora gli sembrava ancora più vibrante nelle variazioni che dall’olivastro pallore del naso fino alle guance finivano a maculare di rosso le gote.
Mi stava stampato di fronte. Fece un cenno di saluto e io, con un semi-sorriso e un piccolo cenno della testa, risposi cortesemente; poi, scivolandogli di lato, mi infilai nella stanza. La porta si era chiusa dietro di me, e davanti, seduto, il grande capo mi guardava; ma guardandomi come se non mi guardasse, da rendermi invisibile, come assente. Ero lì, mi vedeva, ma non c’ero. Era la sua tecnica, inimitabile. Questa volta mi parlò immediatamente, senza preamboli, rapidamente. La questione doveva scottargli. Dovette rimanere sorpreso, e io per primo, per il vero, perché, con tutta la mia volontà, non riuscivo a comprendere quello che diceva. Ascoltavo a tratti. Dovevo avere in quel frangente un’espressione simile alla sua, un capolavoro che non mi era mai riuscito. E’ che pensavo unicamente all’uomo che dalla mattina non faceva altro che aprirmi porte. A quell’uomo che mai avrei immaginato di incontrare in quel palazzo, e a quel piano poi, e in quella stanza addirittura! Mi girava tutto intorno e finii per sedermi senza che fossi stato invitato a farlo. Non era mia abitudine, cosicchè il mio potente superiore, ad un certo punto, mi chiese: “...evich, ma si sente bene?” Solo a quel punto era scoppiata la bolla di sapone in cui mi ero ficcato, solo in quel momento le orecchie mi si erano stappate, una sensazione simile allo scendere da una montagna troppo rapidamente o al riemergere da una immersione profonda. “Sto bene, grazie, è stato un attimo”.
“Allora ha capito quanto le ho detto? E’ una questione delicata. Il Presidente ed il Ministro sono stati informati, tocca a lei, ora, fare il primo passo, ha tutti gli strumenti. Come si trova nella sua nuova città?”
“E’ molto tranquilla, finirò per ingrassare”.
“Non penso, dopo quanto le ho detto”.
“Certo, mi terrò in contatto”.
“Aspetto un’informativa entro dieci giorni, mi raccomando, è una questione piuttosto delicata”.
Stavo per andar via, e quello che mi premeva era non tanto il non aver capito nulla di quello che mi aveva detto, cosa gravissima per altro; né mi premeva l’attenzione del presidente e del ministro alla questione. Volevo sapere solo chi potesse essere quell’uomo che avevo incontrato due volte in una sola mattinata su una soglia che dovevo attraversare. Quell’uomo dalla pelle malata mi fece venir voglia di passare a trovare il mio caro professore.
5 continua

lunedì 21 aprile 2008

06/07/Ostia



Stare in un posto come un oggetto.
Orientare la testa insieme a tutto il tronco.
Stendere le gambe come potrebbe fare un tavolino.
E stare sempre dalla parte del vento.

martedì 15 aprile 2008

Here I am!



Elezioni politiche italiane 13/14 aprile 2008
(Serafino Amato fotografato da Andrea Ruggeri per la serie fotografica: False finzioni 2006/2008)

venerdì 14 marzo 2008

Salutare natica 4



Evidentemente, senza abbassare la guardia, stavo vincendo la partita, tanto da mettermi a valutare le affezioni degli altri. Beh! non avrei fatto a cambio con una psoriasi, se non altro perché tutti quelli che ce l’hanno, mostrano un’aria di persona contrita, di qualcuno fra due fuochi, di quelli che non sanno scegliere da che parte stare. Il vagone si era riempito, erano saliti una ventina di chiassosi quattordicenni, ma erano scesi a Piramide. A quella fermata si esce dalla galleria. Fuori dal tunnel la luce del giorno sembrava più luminosa di quanto mi era apparsa al mio arrivo alla stazione Termini. Salito in metro, avevo scelto l’angolo a destra del vagone e ora ero per metà schiacciato e l’altra metà appoggiato. Si era aperto finalmente un po’ di spazio, quando il treno era ripartito da Piramide, ed erano saliti due musicisti rom, ben messi. Per due fermate avevano suonato senza interruzione, facendo uno spettacolino decoroso. Al momento della questua con il bicchiere Mac Donald avevano tirato su parecchi soldi. Erano stati premiati per la professionalità, il distacco e la pulizia. Dopo San Paolo la carrozza viaggiava semivuota ma continuavo a starmene pigramente schiacciato in quell’angolo come fossi ancora costretto in quella posizione. Era stato allora, che una donna, con in grembo un fagotto che poteva contenere forse un neonato, dopo aver detto a tutti in un pessimo italiano: ”Mi chiamo ...evich, sono di Pristina, chiedo signori mi aiutare”, aveva incominciato a cantare una bellissima canzone nella sua lingua.
Aveva una bella voce dolcissima, calda, appassionata. Cantava ad occhi chiusi e volgeva il volto verso l’alto. Cercai dei soldi in tasca, ma quello che avevo mi sembrava poco, avrei voluto darle di più, forse una banconota. Avevo già messo mano al portafoglio, ma, attimo dopo attimo, quel canto mi era diventato insopportabile e non solo a me. La gente cominciava a scostarsi, era diventato impossibile ascoltare quella voce, quella melodia avvolgente, così intima e dolente. Restai con la banconota stretta in mano nel mio angolo. Per fortuna scese con i pochi spiccioli raccolti.
Dopo avere ascoltato quel canto dolce e struggente si era sentito lui stesso un bamboccio infagottato, come quello che la donna portava. La prossima fermata, sarebbe stata la sua, Eur Fermi.
Si aprirono tutte le porte ma non la sua, pensava ad un difetto dello scorrevole e si agitò un poco, temendo di non riuscire a scendere in tempo, ma ecco che il signore con la psoriasi, che non aveva più visto per tutto il viaggio, vedendolo in difficoltà, spinse il pulsante per lui. Si guardarono, l’uomo sorrise, ma lui non riuscì a fare un cenno di ringraziamento. Velocemente balzò fuori, da lì fece un gesto di saluto ma le porte già si erano chiuse sullo sguardo ormai lontano dell’uomo. La mano gli era rimasta sospesa in quel gesto. Si era così ricordato della sua mano sospesa a mezz’aria sul bancone della tabaccheria e dell’imbarazzo che aveva provato. Cosa gli stava succedendo, perché così repentinamente si facevano largo pensieri che mai avrebbero occupato uno spazio nella sua vita e che lo allontanavano dal suo impegno? Nel lavoro era stato scelto per il suo distacco, per la lucidità e la freddezza con cui si assumeva responsabilità e prendeva decisioni, ma ora la sua mente era occupata da pensieri inutili, secondari. Doveva essere stato quell’eczema, quella pruriginosa sofferenza a indebolirlo. Ora che tutto stava passando, la misantropia che lo contraddistingueva non trovava più sfogo e poteva riprendere possesso della sua sicurezza.
Non poteva essere certo un suo collega l’uomo con la psoriasi. Quel volto paonazzo non avrebbe saputo celare insicurezze e incertezze. Il non sapere bene cosa, da che parte stare, uno come quello sembrava avercelo stampato in faccia. Aveva salito gli scalini che lo portavano all’aperto a grandi balzi, a tre a tre, qualcosa fra il furioso e il vigoroso, come a voler ritrovare la certezza, la mancanza di ogni dubbio che aveva sempre contraddistinto la sua vita.
Quella città gli piaceva, era animata, confusa e affollata e allo stesso tempo in tanti angoli appartata e molla: seduta.
4 continua

lunedì 10 marzo 2008

02/08 Ri-ciclabile



Sulla pista ciclabile ci ho passato ore e ore in 15 anni. Sommate sono giorni, forse settimane, ma non ci ho mai abitato. Ci hanno abitato in migliaia, almeno dal 2001 a qualche mese fa. Poi, ammazzato un ciclista e una donna, hanno fatto sgombrare tutte le baracche. Non che abbiano bonificato la zona, le hanno solo demolite, lasciando i pezzi a marcire.
Solo questa è resistita. Devo dire la meglio costruita. Era stata parzialmente abbattuta, poi, il proprietario l’ha rimessa in piedi. L’ha fatta tutta bianca e sulla porta ci ha messo una croce.
Che cosa è? Una cattedrale? La chiesa di tutte le baracche? Non sarà più toccata nella sua extraterritorialità.
Questo è quanto si potrebbe definire una perfetta conoscenza nell’uso dei simboli.

martedì 19 febbraio 2008

Salutare natica 3



Era la prima volta che mi capitava di vederlo in bella mostra, a caratteri cubitali e aggraziati. Scritto pubblicamente, in mezzo ad una piazza. Guardai l’insegna fino all’ora del crepuscolo, fino a quando, con quattro lampi improvvisi, i neon tubolari si accesero, colorando di un bel giallo il mio nome. Non si illuminò tutto insieme, la ”ich” sfarfallò per qualche secondo. Quella insegna mi faceva sentire meno solo, era come avere un pezzo di famiglia, un parente a cui fare visita.
Erano stati giorni di calma, settimane tranquille, tanto che si era dimenticato di richiamare il professore. Aveva seguito la cura, preciso, alla lettera: la polvere, le fiale, i fermenti lattici, il sapone liquido solo ogni due o tre giorni. Aveva temuto nei giorni peggiori che l’infiammazione giungesse alla pelle delicata dello scroto o all’inguine, come a quel suo caro amico che stava sempre a farsi impacchi. E’ lì che preme l’elastico degli slip e mai avrebbe potuto indossare delle mutande boxer che non hanno l’elastico, che non raccolgono in un unico pacco sesso e scroto, che danno la sensazione che tutto resti penzoloni, libero di dondolare a destra o a sinistra, quando era sempre a sinistra che lui se lo fermava nelle mutande. Fortunatamente il rossore era regredito e anche il buonumore gli era ritornato. Si era dimenticato della tabaccheria con il suo cognome, aveva bisogno di una carta telefonica, c’era entrato come in una delle tante, e solo lì dentro se ne era ricordato. Una ragazza gli chiese gentilmente di che cosa avesse bisogno. A lui sembrò un tempo lunghissimo quello della sua risposta, ma non più del tempo che prende una semplice distrazione. “Un tipo sovrappensiero”, poteva aver pensato la ragazza. Ma l’herpes di lei lo aveva confuso e attirato a tal punto da non riuscire a rispondere immediatamente. L’herpes, uno sfogo visibile: che dermatite! Tutto il contrario della mia, reclusa fra il sudore, l’umido e il buio delle natiche. L’herpes di lei, fresco, sfogato, che dal labbro saliva fin sopra alla narice, era bellissimo. L’aveva guardato prima dei suoi occhi, azzurrissimi, prima del suo delicato naso, prima della pelle candida del suo viso, e avrebbe fatto decisamente a cambio con la sua dermatite. L’herpes di lei per il suo eczema! Perché quell’herpes sembrava come gli sembrava lei, aperta, come a dire: “Non posso farci niente, questo non lo posso nascondere, è una parte di me che quasi sempre riposa, ma che quando esce, deve mostrarsi”. Il mio eczema muto, invece, era lo specchio della mia introversione e per la prima volta realizzavo di essere un Mr. Hide. Quel rossore fra le natiche era anch’esso nel posto più nascosto di me. Mr. Hide, “to hide”, nascondere, e quel gioviale herpes, l’espressione del virus a cui lei aveva offerto ospitalità. Dopo aver pagato la tessera, le dissi:
“Anche io mi chiamo ...evich, sa? Abbiamo lo stesso cognome, forse lei viene da...?
“No, in questo paese ce ne sono solo due di famiglie con questo cognome, veniamo tutti e due da...”.
“Come le sa tutte queste cose?”
“Me le ha raccontate per una vita mio nonno, era fisso a raccontarmi tutto quello che sapeva su questo cognome”.
“Piacerebbe anche a me saperne qualcosa di più...Posso chiederle il suo nome?”
“Daria, mi chiamo Daria”.
“Io Mario”.
Le allungai la mano da sopra il bancone, lei esitava, pensai che non avesse capito il mio gesto, il mio desidero di un saluto più personale. In fondo non era tenuta a stringermi la mano, stringere la mano ad un cliente visto per la prima volta.
Ora che cominciava ad essere un poco più fresco, mi avevano richiamato a Roma. A Termini mi infilai nella metro, la linea che va all’Eur. Era molto tempo che non passavo per la capitale, forse due anni. Mi pareva molto cambiata già nel tubo della metropolitana. I colori della città sotterranea mi sembravano più brillanti, ne avevo un ricordo grigiastro, uniforme. Entrato nel vagone incontrai “una psoriasi”. Un signore sui cinquant’anni, un bell’uomo, ma con quella variopinta sfumatura che dal bianco passa al rosso e dalle narici arriva fino alle guance. Più o meno così, quelli con la psoriasi. Che strana malattia!
Pensando a quella dermatosi mi tornò in mente l’herpes della tabaccaia, poi il mio prurito, ormai assente da parecchio.

3 continua


venerdì 15 febbraio 2008

2007




Dalle parti di Prati Il ragazzo è ceco, me lo ha detto lui stesso, ma ha gli occhi verdi. Il pupazzo è cieco ad un occhio e all'altro pure e si capisce.

domenica 10 febbraio 2008

Salutare natica 2



Su quel viale, quel giorno, proprio divagando e fantasticando sul proprio nome, aveva anche considerato che in quest’ultimo trasloco la dermatite lo stava parzialmente risparmiando; lo aveva colpito secco all’inizio, ma lui aveva reagito con tutte le armi di cui disponeva, e il prurito se ne era quasi del tutto andato. Non esplodendo il solito fuoco che aveva conosciuto in passato, stavolta era costretto ad una guerra di posizione. Forse il suo “nemico” lo stava studiando, aspettava il momento in cui colpirlo, o forse era indebolito dalle creme che per precauzione, una volta al giorno, si spalmava fra le natiche o dalla meticolosa asciugatura ad ogni lavaggio, o forse lo stesso nuovo clima aveva addomesticato l’avversario. Il suo ottimismo, d’improvviso, proprio davanti a quella scritta, “Giubileo”, svanì, perché in quel momento fu attaccato da un irrefrenabile, divorante pizzicore e un calore forte fra le natiche gli fece sembrare la pomata olio per frittura. Con le natiche incandescenti, a lunghi passi e a gambe un poco larghe, corse a casa, sciacquò tutto con il sapone e si attaccò al telefono.
“Pronto professore, mi scusi se la disturbo. Sono alle solite, sembro un macaco!”
“Stai mettendo le cose che ti ho dato?”
“Più o meno, però mi sembra pure peggio delle altre volte”.
“Non è possibile, vieni qui che ti visito”.
“Non posso, sono a 500 km...”
”Ah, dimenticavo. Allora fai così: metti quel farmaco che ti ho dato, quello in polvere e poi prendi le solite fiale per bocca e fra qualche giorno, se non ti passa, richiamami. Cerca di stare tranquillo, psiche-pelle, te l’ho sempre detto, non mangiare piccante, stai tranquillo, sorridi, prenditela allegra, canta, fischietta, fai delle belle passeggiate.”
“Non faccio altro, professore. Grazie ancora”.
Cantare, forse fischiettare, per allontanare il malumore in cui era precipitato per quel fastidioso rossore. Così, davanti a “Giubileo”, aveva tirato diritto nei giorni seguenti. Sentendosi un poco meglio, continuava a tenersi “in bianco”, era meglio stare leggero. La polvere che aveva messo la mattina fra le natiche, al posto della fastidiosa crema, non lo disturbava nella camminata, stava bene, nessun prurito.
Qualche giorno dopo ero nel giardino che si trova in fondo a viale Gozzer. Seduto su una panchina, pensavo a che calore mi avrebbe avvolto entrato dentro casa. Il bambino era alto poco più di un metro e stava ad osservare ogni mio movimento, quando lentamente avvicinò alla bocca la formica che aveva raccolto sul muretto. Tirò fuori la lingua e ci poggiò la formichina... e quella tranquillamente cominciò a passeggiarci sopra. L’animaletto aveva preso a camminare in tondo, si dirigeva verso i denti, ma lui, ritraendo la lingua verso il palato, la riportò due volte dentro chiudendo la bocca. Io lo guardavo con un’aria volutamente ed eccessivamente schifata, quando con un colpo secco fece calare i denti sulla lingua. La prima volta la formica restò fuori per intero, la seconda scomparve dietro i denti, ma alla terza volta rimase troncata in due; la ingoiò, continuava a fissarmi. Rimasi fermo a guardare immaginando a che punto fosse ormai l’insetto, poi lo guardai negli occhi: mi puntava fisso, forse voleva cogliere sul mio viso lo stupore o cosa altro non so. Pallido e segaligno, con gli occhi azzurrissimi, prese a correre verso la parte opposta del giardino in direzione della tabaccheria. Mi accorsi solo dopo che lo stavano chiamando: doveva essere la madre. Lo chiamava a piena voce: “Dario, vieni subito qui!”, e chi lo chiamava era come se sapesse che prodezza aveva fatto davanti ai miei occhi. Per un attimo ero stato colto da un certo stupore, avevo scambiato quel “Dario” per il mio “Mario”. Mi sarebbe tornata molte volte in mente questa scena, ma era la prima volta che rivivevo il mio gioco preferito; ero stato anch’io un tempo un mangiatore di formiche, anche se meno spavaldo. Ero rimasto assorto ricordando a testa bassa. Davanti a me, fuori dal parco, potevo vedere l’insegna di una tabaccheria. In genere le tabaccherie non hanno segni distintivi o insegne, se non la grande T, questa invece aveva sul portale, a semicerchio, scritto il mio cognome: ...evich.

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sabato 9 febbraio 2008

01/08 Il cattivo sonno non aiuta





Per un mese ad inseguire rumori: artistico il silenzio

lunedì 4 febbraio 2008

Salutare natica 1




In tre momenti memorabili della sua vita aveva avuto una grossa infiammazione. In tutti quanti i casi era stato un trasferimento, un cambiamento di alloggio a scatenargli, prima, un irresistibile prurito, poi un’infiammazione. Non amava quindi cambiare domicilio, sapeva che quel prurito e poi quel fuoco potevano durargli delle settimane, anche dei mesi, e che pomate e saponi non gli avrebbero risolto il problema. Vuoi che avesse un eczema, vuoi che avesse un fungo, il fatto che fosse il culo ad infiammarsi lo indeboliva più della dermatite stessa e ogni volta gli era diventato come quello di un macaco. Tutti hanno avuto dei pruriti nella vita, pochi, però, devono aver conosciuto l’imbarazzo di avere il sedere trito ad ogni cambio di casa. Ne aveva grande cura, anche lavarlo troppo poteva essere nocivo e soprattutto ai saponi stava attento, a non usarne in grande quantità. Lo asciugava bene, con tovagliette di cotone bianco, come il colore delle mutande, anche quelle bianche. Sapeva che quasi sempre bastava acqua a detergerlo, solo talvolta un sapone leggero, quello che gli aveva prescritto il dermatologo, al quale, non senza un certo imbarazzo, aveva mostrato il suo didietro in più di una occasione. Sapeva bene che se cominciava il prurito, aveva pochi giorni per fermarlo, usando una crema che gli faceva scivolare le chiappe quando camminava: una cosa davvero fastidiosa quell’unto fra le natiche. Questo era il suo quarto trasferimento in due anni, da pochi giorni in una nuova città, per quel lavoro che lo portava a cambiare spesso luogo. Se ne sarebbe stato a casa volentieri, a casa sua, dai suoi, non era neanche sposato. Proprio a lui doveva capitare questo, a lui che odiava ogni spostamento, un lavoro nomade. In questa ultima città, poi, non conosceva nessuno, peggio delle altre volte. Il suo lavoro consisteva in un qualcosa che neanche lui poteva spiegare. In aprile aveva preso in affitto la casa. Quando era arrivato, in primavera, non era né caldo né freddo e non poteva immaginare che quell’abitazione in estate diventava un forno e diventando un forno, tutto il giorno, lo passava negli unici posti di quella calda città dove si poteva respirare: il parco pubblico e il viale che percorreva per andarci. Il viale cominciava proprio da casa sua, tutto alberato, costeggiava un muraglione gigantesco costruito chissà in quale secolo a difesa della città. La sua abitazione era in viale Gozzer. L’aveva scelta proprio per quel nome, che a lui sembrava esotico, sebbene, poco dopo, si era accorto che di Gozzer ce n’erano ancora parecchi. Lui stesso riteneva di avere un cognome “raro”, uno di quelli che finiscono in ...evich, Nel suo paese non conosceva altri con quel cognome. Chissà da chi, emigrante o vagabondo gli era arrivato.
Il caldo lo faceva uscire di casa ogni giorno. Seguendo il viale che scivolava alberato assecondando l’andamento ondulante delle antiche mura, aveva cominciato a riflettere sul suo nome, che, invece, non era certo originale. Non ci aveva mai veramente prestato attenzione in trenta anni di vita, ma il suo nome era proprio banale se confrontato con il cognome che suonava poco italico. Pensava che in questo momento un cognome slavo non fosse proprio popolare, con una mezza dozzina di criminali di guerra balcanici con la stessa “desinenza”. Fortuna che il suo aspetto curato, il suo perfetto italiano del sud e i suoi modi gentili, non lo avrebbero fatto mai prendere per un emigrante “dell’ultimora”, e quel nome, forse banale, ma così italiano, era una garanzia ulteriore in quel nuovo posto, dove la gente sembrava gentile, a tratti generosa, ma anche sospettosa.
“Mario” gli era apparso improvvisamente un nome “inutile” proprio camminando sotto il muraglione, dove vi erano scritte per un chilometro. Era fitto fitto di nomi, di intere, frasi indirizzate forse a gente della zona. Insulti accanto ai messaggi degli innamorati, in mezzo ad imprecazioni a carattere sportivo o politico alcuni anche di molti anni prima. Doveva però esserci parecchia gente che si amava in quel chilometro. “Amore mio, non torniamo mai indietro neanche per prendere la rincorsa”, “Solo baci per te, mai più lacrime”, “6 l’unico per sempre! Orsacchiotto”. Che “Mario” fosse un nome idiota, se ne rese conto il giorno in cui gli apparve all’improvviso una nuova scritta a firma: Giubileo.
Un’illuminazione leggere quelle quattro sillabe. Che nome originale! Avrebbe lui stesso voluto chiamarsi Giubileo ...evich. Giubileo non era un nome qualunque. Se avesse avuto un figlio, gli sarebbe piaciuto chiamarlo così.

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sabato 19 gennaio 2008

01/08 Si riparte da "Salutare natica"




In tre momenti memorabili della sua vita aveva avuto una grossa infiammazione...