Faccia a faccia non eravamo due sconosciuti. Lei era sorpresa di vedere qualcuno sbucare d’improvviso da quella “boscaglia”, e io ero altrettanto sorpreso di rivedere la cantante della metropolitana prodursi nello stendimento di indumenti, che ad occhio e croce erano di un bambino e di un uomo robusto: pantaloni e camicia. Sorpreso, con un sorriso, le dissi subito: “Kosovara?”.
“No! Sì”.
“Sì o no?”, le dissi, producendomi in un sorriso ancora più vasto.
“Sì. Devo andare, mi scusare”.
Il mio abbigliamento era totalmente inadatto ad ogni esplorazione e quindi lei poteva aver unicamente pensato ad uno che s’era perso nella speranza di fare una scorciatoia.
“No, aspetti, venga qui”, le dissi. Si voltò, ma senza rispondermi. Con un’espressione corrucciata andò verso la baracca e chiuse la porta. Ero affaticato molto più di quanto il percorso che avevo fatto meritasse. Fu allora che, seduto sul moncherino di un albero potato, avvertii che ero osservato dall’interno della casa. Lo sguardo di un uomo, di sbieco, arrivava a colpirmi, era uno sguardo preoccupato, preciso: militare, come quello di un cecchino, e infatti ero centrato come nel mirino della lunga canna di un fucile. Eppure nessun moto istintivo di protezione scattò dentro di me. L’elementare rudimento, la più essenziale, fondamentale regola dell’uscire immediatamente dalla traiettoria, non trovava risposta nel mio corpo, come se fosse stato il corpo di un altro il mio, come se provasse un solletico piacevole a restare nella mira di uno straniero nascosto dietro una finestra. Fu proprio il mio atteggiamento, ingenuo forse, l’atteggiamento di un cacciatore stanco e senza fucile, il fare di uno che sì è perso per davvero -che altro poi non ero in quel momento della mia vita, passata a spalmar pomate sul culo, a mangiare cibi cotti a vapore e a lavar mutande in acqua separata, a ricordare storie inutili di stupidi insetti inghiottiti da un bambino, di uno incapace di attraversare portoni, piuttosto che quello di uno allenato alla reazione immediata e meditata- che probabilmente indusse la donna e poi l’uomo ad uscir di casa. Ebbi tutto il tempo di vedere la donna in viso, era assai più bella di come mi era sembrata solo un attimo prima e di come me la ricordavo nel vagone della metropolitana. Vestita di nero, fasciata in una gonna di lana, mostrava una figura bellissima, le si intravedevano due bei seni sotto la maglia nera, abbandonati sul petto, un po’ distanti uno dall’altro, sorretti dai capezzoli turgidi. Lui, lo riconobbi subito, ma non mostrai sorpresa, né devo dire timore. Non mi ero mosso, quello che unicamente mi accadde, e fu la paura probabilmente a provocarlo, non fu affanno, ma un senso di improvvisa, grande stanchezza, tanto che sembrai loro sul punto di un malore.
“Signore, problema?”.
“No, nessun problema, mi sono perso”.
“Che?”.
“Perduto, lost, je ne trouve pas la route”, e stavo per dirglielo in serbo-croato, ma quello sarebbe stato pericoloso.
“Quella...” e la donna mi indicò un sentiero.
Quando mi alzai, mi accorsi che le gambe mi tremavano. Fu in quel momento che, sorridendo e ringraziando e incamminandomi e ancora voltandomi a ringraziare, mi tornò alla mente ogni singola parola del mio capo, con il tono preoccupato e perentorio con cui era stata detta. Avevo avuto davanti a me, esattamente, e solo per pochi secondi, lo “Yeti” dei Balcani, l’uomo che in parecchi avrebbero voluto mandare all’altro mondo, e altri, come il mio capo, che si sarebbero accontentati di saperlo lontano dall’Italia, ma già che c’era, a questo punto era da mettere in manette.
In testa avevo come un fuoco d’artificio. Che fortuna avevo avuto!
7 continua
“No! Sì”.
“Sì o no?”, le dissi, producendomi in un sorriso ancora più vasto.
“Sì. Devo andare, mi scusare”.
Il mio abbigliamento era totalmente inadatto ad ogni esplorazione e quindi lei poteva aver unicamente pensato ad uno che s’era perso nella speranza di fare una scorciatoia.
“No, aspetti, venga qui”, le dissi. Si voltò, ma senza rispondermi. Con un’espressione corrucciata andò verso la baracca e chiuse la porta. Ero affaticato molto più di quanto il percorso che avevo fatto meritasse. Fu allora che, seduto sul moncherino di un albero potato, avvertii che ero osservato dall’interno della casa. Lo sguardo di un uomo, di sbieco, arrivava a colpirmi, era uno sguardo preoccupato, preciso: militare, come quello di un cecchino, e infatti ero centrato come nel mirino della lunga canna di un fucile. Eppure nessun moto istintivo di protezione scattò dentro di me. L’elementare rudimento, la più essenziale, fondamentale regola dell’uscire immediatamente dalla traiettoria, non trovava risposta nel mio corpo, come se fosse stato il corpo di un altro il mio, come se provasse un solletico piacevole a restare nella mira di uno straniero nascosto dietro una finestra. Fu proprio il mio atteggiamento, ingenuo forse, l’atteggiamento di un cacciatore stanco e senza fucile, il fare di uno che sì è perso per davvero -che altro poi non ero in quel momento della mia vita, passata a spalmar pomate sul culo, a mangiare cibi cotti a vapore e a lavar mutande in acqua separata, a ricordare storie inutili di stupidi insetti inghiottiti da un bambino, di uno incapace di attraversare portoni, piuttosto che quello di uno allenato alla reazione immediata e meditata- che probabilmente indusse la donna e poi l’uomo ad uscir di casa. Ebbi tutto il tempo di vedere la donna in viso, era assai più bella di come mi era sembrata solo un attimo prima e di come me la ricordavo nel vagone della metropolitana. Vestita di nero, fasciata in una gonna di lana, mostrava una figura bellissima, le si intravedevano due bei seni sotto la maglia nera, abbandonati sul petto, un po’ distanti uno dall’altro, sorretti dai capezzoli turgidi. Lui, lo riconobbi subito, ma non mostrai sorpresa, né devo dire timore. Non mi ero mosso, quello che unicamente mi accadde, e fu la paura probabilmente a provocarlo, non fu affanno, ma un senso di improvvisa, grande stanchezza, tanto che sembrai loro sul punto di un malore.
“Signore, problema?”.
“No, nessun problema, mi sono perso”.
“Che?”.
“Perduto, lost, je ne trouve pas la route”, e stavo per dirglielo in serbo-croato, ma quello sarebbe stato pericoloso.
“Quella...” e la donna mi indicò un sentiero.
Quando mi alzai, mi accorsi che le gambe mi tremavano. Fu in quel momento che, sorridendo e ringraziando e incamminandomi e ancora voltandomi a ringraziare, mi tornò alla mente ogni singola parola del mio capo, con il tono preoccupato e perentorio con cui era stata detta. Avevo avuto davanti a me, esattamente, e solo per pochi secondi, lo “Yeti” dei Balcani, l’uomo che in parecchi avrebbero voluto mandare all’altro mondo, e altri, come il mio capo, che si sarebbero accontentati di saperlo lontano dall’Italia, ma già che c’era, a questo punto era da mettere in manette.
In testa avevo come un fuoco d’artificio. Che fortuna avevo avuto!
7 continua
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