domenica 22 giugno 2008

Salutare natica 8


“Un errore così non era da fare!”. La procedura è standard. Fra riservato, riservatissimo e segreto ci sono una serie di procedimenti obbligatori affinché la comunicazione sia effettivamente riservata, riservatissima o segreta. La mia comunicazione segreta l’ho declassata a riservatissima, il che in alcuni casi non è che provochi guai, talvolta si fa apposta per depistare, una certa discrezionalità esiste, ma non in questo caso. Ho sbagliato procedura e ho declassato la riservatezza di una informazione delicata e non posso ora valutarne le conseguenze. Sul piano disciplinare ce ne saranno sicuramente, giusto il tempo che la faccenda venga chiusa. Saprei stendere un toro con le mani, so parlare quattro lingue, strisciare dove pochi possono, immergermi in profondità. So infiltrarmi, sono stato addestrato all’uso delle armi ma nell’uso del computer continuo a fare errori. Non è facile mantenere un segreto, bastasse stare a bocca chiusa! Mandare un’informazione in rete e proteggere il segreto vuol dire applicare una procedura così complicata, e ogni volta originale, che ho finito per sbagliare; ed è evidente che non puoi farti aiutare, vista la materia, e neanche consultare il manuale, dal momento che non c’è. Ho combinato un casino stamattina. Ma da oggi si cambia. Altro che pomate e contorsionismi allo specchio per vedere se va meglio. Per pura fortuna ho trovato quello che dovevo cercare. Ora potevo far passare per grande capacità investigativa la fortuna. Ho messo in rete un’informazione a disposizione di più di cinque persone, che sono, in questo campo, una folla. Stamattina mi sono messo in tuta e ho fatto 20 chilometri di corsa come non li facevo da tempo e i polmoni mi bruciavano e sentivo la pancetta rimbalzare, come un impiegato lanciato al galoppo. Troppa discrezionalità mi ha ridotto in questo stato, mi hanno lasciato eccessiva libertà. Sono ancora paonazzo. Che perfezione di casualità, ogni cosa al suo posto. Secondo giorno: nessun contatto: né per vie telematiche, né per altre vie. Sono pronto per agire in attesa del mio gruppo. Corro da tre quarti d’ora, e sono sudato, ma è molto meglio di ieri. Ripenso al mio errore come una questione di porte: ho lasciato una porta aperta e dovevo chiuderla. Mi riviene in mente l’uomo della metro, la sua pelle, lo stupore che avevo provato nel ritrovarmelo davanti negli uffici, me ne aveva aperte due di porte quella mattina, e senza una parola, solo un sorriso congelato; forse uno straniero? Sto calando un po’ di ritmo, ma forse questa è una leggera salita, un “falso piano”... che poi vuol dire depistaggio. Oggi non sento di essere un bisonte in corsa, mi sento già più compatto di ieri. Disciplinato stavolta, con abbigliamento tecnico, anche se con il fiatone. Mi mantengo sulle centottanta pulsazioni e decido di andare avanti così per altri dieci minuti. Giro l’angolo e sono sul vialone, alcune macchine mi passano accanto veloci, troppo vicine per non imprecare. Sono pronto, e i muscoli cominciano a svegliarsi dal torpore. Sono giorni che non passo dalla mia tabaccaia, che non mi fermo nel giardino a contemplare il mio nome accendersi al tramonto. Ma come posso avere fatto tutto questo, lasciarmi andare in questo modo, comportarmi come farebbe un poeta, per settimane stare a contemplare ogni cosa con uno sguardo fiacco e indebolito sulle gambe, dolente nel cuore e infiammato nei glutei. Sette minuti, ma forse mi allungo di nuovo a 10, come se gli ultimi tre non fossero passati. Una processione di ricordi, di tempo perso; digrigno i denti. Queste settimane, come se non fossero mai passate! Quattro minuti ancora, ma ne farò dieci, come se i sei non fossero mai passati e mi sembra in questo modo di recuperare una settimana. Sulle centosettanta pulsazioni, ripenso alle macchine che corrono sfiorandomi. Strano, c’è qualcosa di poco chiaro, ma il mio telefono resta muto. Due minuti, ma non posso far finta che questi non siano passati, ne farò altri otto e questi ci saranno stati, come ci sono state settimane di silenzio e di prurito. Zero minuti e ora è come se mi fossi fermato, ma continuo a correre, per altri sei minuti almeno. Mi aspetta il viale, a sinistra la strada e a destra il muraglione, ma come svolto, la vedo correre urlando verso di me. La mia corsa rimane incastrata nelle gambe e mi blocco floscio, sudato, affannato. La prendo con le mani, le tengo le braccia. Lei in bosniaco urla piangendo, disperata grida solo nella sua lingua. “Me lo hanno preso, me lo hanno preso, il bambino, lo hanno preso insieme a lui”.
E’ sfinita, senza rispondere abbandona il suo corpo fra le mie braccia, mescolando le lacrime al mio sudore.
8 continua


Salutare natica 7


Faccia a faccia non eravamo due sconosciuti. Lei era sorpresa di vedere qualcuno sbucare d’improvviso da quella “boscaglia”, e io ero altrettanto sorpreso di rivedere la cantante della metropolitana prodursi nello stendimento di indumenti, che ad occhio e croce erano di un bambino e di un uomo robusto: pantaloni e camicia. Sorpreso, con un sorriso, le dissi subito: “Kosovara?”.
“No! Sì”.
“Sì o no?”, le dissi, producendomi in un sorriso ancora più vasto.
“Sì. Devo andare, mi scusare”.
Il mio abbigliamento era totalmente inadatto ad ogni esplorazione e quindi lei poteva aver unicamente pensato ad uno che s’era perso nella speranza di fare una scorciatoia.
“No, aspetti, venga qui”, le dissi. Si voltò, ma senza rispondermi. Con un’espressione corrucciata andò verso la baracca e chiuse la porta. Ero affaticato molto più di quanto il percorso che avevo fatto meritasse. Fu allora che, seduto sul moncherino di un albero potato, avvertii che ero osservato dall’interno della casa. Lo sguardo di un uomo, di sbieco, arrivava a colpirmi, era uno sguardo preoccupato, preciso: militare, come quello di un cecchino, e infatti ero centrato come nel mirino della lunga canna di un fucile. Eppure nessun moto istintivo di protezione scattò dentro di me. L’elementare rudimento, la più essenziale, fondamentale regola dell’uscire immediatamente dalla traiettoria, non trovava risposta nel mio corpo, come se fosse stato il corpo di un altro il mio, come se provasse un solletico piacevole a restare nella mira di uno straniero nascosto dietro una finestra. Fu proprio il mio atteggiamento, ingenuo forse, l’atteggiamento di un cacciatore stanco e senza fucile, il fare di uno che sì è perso per davvero -che altro poi non ero in quel momento della mia vita, passata a spalmar pomate sul culo, a mangiare cibi cotti a vapore e a lavar mutande in acqua separata, a ricordare storie inutili di stupidi insetti inghiottiti da un bambino, di uno incapace di attraversare portoni, piuttosto che quello di uno allenato alla reazione immediata e meditata- che probabilmente indusse la donna e poi l’uomo ad uscir di casa. Ebbi tutto il tempo di vedere la donna in viso, era assai più bella di come mi era sembrata solo un attimo prima e di come me la ricordavo nel vagone della metropolitana. Vestita di nero, fasciata in una gonna di lana, mostrava una figura bellissima, le si intravedevano due bei seni sotto la maglia nera, abbandonati sul petto, un po’ distanti uno dall’altro, sorretti dai capezzoli turgidi. Lui, lo riconobbi subito, ma non mostrai sorpresa, né devo dire timore. Non mi ero mosso, quello che unicamente mi accadde, e fu la paura probabilmente a provocarlo, non fu affanno, ma un senso di improvvisa, grande stanchezza, tanto che sembrai loro sul punto di un malore.
“Signore, problema?”.
“No, nessun problema, mi sono perso”.
“Che?”.
“Perduto, lost, je ne trouve pas la route”, e stavo per dirglielo in serbo-croato, ma quello sarebbe stato pericoloso.
“Quella...” e la donna mi indicò un sentiero.
Quando mi alzai, mi accorsi che le gambe mi tremavano. Fu in quel momento che, sorridendo e ringraziando e incamminandomi e ancora voltandomi a ringraziare, mi tornò alla mente ogni singola parola del mio capo, con il tono preoccupato e perentorio con cui era stata detta. Avevo avuto davanti a me, esattamente, e solo per pochi secondi, lo “Yeti” dei Balcani, l’uomo che in parecchi avrebbero voluto mandare all’altro mondo, e altri, come il mio capo, che si sarebbero accontentati di saperlo lontano dall’Italia, ma già che c’era, a questo punto era da mettere in manette.
In testa avevo come un fuoco d’artificio. Che fortuna avevo avuto!
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