Su quel viale, quel giorno, proprio divagando e fantasticando sul proprio nome, aveva anche considerato che in quest’ultimo trasloco la dermatite lo stava parzialmente risparmiando; lo aveva colpito secco all’inizio, ma lui aveva reagito con tutte le armi di cui disponeva, e il prurito se ne era quasi del tutto andato. Non esplodendo il solito fuoco che aveva conosciuto in passato, stavolta era costretto ad una guerra di posizione. Forse il suo “nemico” lo stava studiando, aspettava il momento in cui colpirlo, o forse era indebolito dalle creme che per precauzione, una volta al giorno, si spalmava fra le natiche o dalla meticolosa asciugatura ad ogni lavaggio, o forse lo stesso nuovo clima aveva addomesticato l’avversario. Il suo ottimismo, d’improvviso, proprio davanti a quella scritta, “Giubileo”, svanì, perché in quel momento fu attaccato da un irrefrenabile, divorante pizzicore e un calore forte fra le natiche gli fece sembrare la pomata olio per frittura. Con le natiche incandescenti, a lunghi passi e a gambe un poco larghe, corse a casa, sciacquò tutto con il sapone e si attaccò al telefono.
“Pronto professore, mi scusi se la disturbo. Sono alle solite, sembro un macaco!”
“Stai mettendo le cose che ti ho dato?”
“Più o meno, però mi sembra pure peggio delle altre volte”.
“Non è possibile, vieni qui che ti visito”.
“Non posso, sono a 500 km...”
”Ah, dimenticavo. Allora fai così: metti quel farmaco che ti ho dato, quello in polvere e poi prendi le solite fiale per bocca e fra qualche giorno, se non ti passa, richiamami. Cerca di stare tranquillo, psiche-pelle, te l’ho sempre detto, non mangiare piccante, stai tranquillo, sorridi, prenditela allegra, canta, fischietta, fai delle belle passeggiate.”
“Non faccio altro, professore. Grazie ancora”.
Cantare, forse fischiettare, per allontanare il malumore in cui era precipitato per quel fastidioso rossore. Così, davanti a “Giubileo”, aveva tirato diritto nei giorni seguenti. Sentendosi un poco meglio, continuava a tenersi “in bianco”, era meglio stare leggero. La polvere che aveva messo la mattina fra le natiche, al posto della fastidiosa crema, non lo disturbava nella camminata, stava bene, nessun prurito.
Qualche giorno dopo ero nel giardino che si trova in fondo a viale Gozzer. Seduto su una panchina, pensavo a che calore mi avrebbe avvolto entrato dentro casa. Il bambino era alto poco più di un metro e stava ad osservare ogni mio movimento, quando lentamente avvicinò alla bocca la formica che aveva raccolto sul muretto. Tirò fuori la lingua e ci poggiò la formichina... e quella tranquillamente cominciò a passeggiarci sopra. L’animaletto aveva preso a camminare in tondo, si dirigeva verso i denti, ma lui, ritraendo la lingua verso il palato, la riportò due volte dentro chiudendo la bocca. Io lo guardavo con un’aria volutamente ed eccessivamente schifata, quando con un colpo secco fece calare i denti sulla lingua. La prima volta la formica restò fuori per intero, la seconda scomparve dietro i denti, ma alla terza volta rimase troncata in due; la ingoiò, continuava a fissarmi. Rimasi fermo a guardare immaginando a che punto fosse ormai l’insetto, poi lo guardai negli occhi: mi puntava fisso, forse voleva cogliere sul mio viso lo stupore o cosa altro non so. Pallido e segaligno, con gli occhi azzurrissimi, prese a correre verso la parte opposta del giardino in direzione della tabaccheria. Mi accorsi solo dopo che lo stavano chiamando: doveva essere la madre. Lo chiamava a piena voce: “Dario, vieni subito qui!”, e chi lo chiamava era come se sapesse che prodezza aveva fatto davanti ai miei occhi. Per un attimo ero stato colto da un certo stupore, avevo scambiato quel “Dario” per il mio “Mario”. Mi sarebbe tornata molte volte in mente questa scena, ma era la prima volta che rivivevo il mio gioco preferito; ero stato anch’io un tempo un mangiatore di formiche, anche se meno spavaldo. Ero rimasto assorto ricordando a testa bassa. Davanti a me, fuori dal parco, potevo vedere l’insegna di una tabaccheria. In genere le tabaccherie non hanno segni distintivi o insegne, se non la grande T, questa invece aveva sul portale, a semicerchio, scritto il mio cognome: ...evich.
2 continua
“Pronto professore, mi scusi se la disturbo. Sono alle solite, sembro un macaco!”
“Stai mettendo le cose che ti ho dato?”
“Più o meno, però mi sembra pure peggio delle altre volte”.
“Non è possibile, vieni qui che ti visito”.
“Non posso, sono a 500 km...”
”Ah, dimenticavo. Allora fai così: metti quel farmaco che ti ho dato, quello in polvere e poi prendi le solite fiale per bocca e fra qualche giorno, se non ti passa, richiamami. Cerca di stare tranquillo, psiche-pelle, te l’ho sempre detto, non mangiare piccante, stai tranquillo, sorridi, prenditela allegra, canta, fischietta, fai delle belle passeggiate.”
“Non faccio altro, professore. Grazie ancora”.
Cantare, forse fischiettare, per allontanare il malumore in cui era precipitato per quel fastidioso rossore. Così, davanti a “Giubileo”, aveva tirato diritto nei giorni seguenti. Sentendosi un poco meglio, continuava a tenersi “in bianco”, era meglio stare leggero. La polvere che aveva messo la mattina fra le natiche, al posto della fastidiosa crema, non lo disturbava nella camminata, stava bene, nessun prurito.
Qualche giorno dopo ero nel giardino che si trova in fondo a viale Gozzer. Seduto su una panchina, pensavo a che calore mi avrebbe avvolto entrato dentro casa. Il bambino era alto poco più di un metro e stava ad osservare ogni mio movimento, quando lentamente avvicinò alla bocca la formica che aveva raccolto sul muretto. Tirò fuori la lingua e ci poggiò la formichina... e quella tranquillamente cominciò a passeggiarci sopra. L’animaletto aveva preso a camminare in tondo, si dirigeva verso i denti, ma lui, ritraendo la lingua verso il palato, la riportò due volte dentro chiudendo la bocca. Io lo guardavo con un’aria volutamente ed eccessivamente schifata, quando con un colpo secco fece calare i denti sulla lingua. La prima volta la formica restò fuori per intero, la seconda scomparve dietro i denti, ma alla terza volta rimase troncata in due; la ingoiò, continuava a fissarmi. Rimasi fermo a guardare immaginando a che punto fosse ormai l’insetto, poi lo guardai negli occhi: mi puntava fisso, forse voleva cogliere sul mio viso lo stupore o cosa altro non so. Pallido e segaligno, con gli occhi azzurrissimi, prese a correre verso la parte opposta del giardino in direzione della tabaccheria. Mi accorsi solo dopo che lo stavano chiamando: doveva essere la madre. Lo chiamava a piena voce: “Dario, vieni subito qui!”, e chi lo chiamava era come se sapesse che prodezza aveva fatto davanti ai miei occhi. Per un attimo ero stato colto da un certo stupore, avevo scambiato quel “Dario” per il mio “Mario”. Mi sarebbe tornata molte volte in mente questa scena, ma era la prima volta che rivivevo il mio gioco preferito; ero stato anch’io un tempo un mangiatore di formiche, anche se meno spavaldo. Ero rimasto assorto ricordando a testa bassa. Davanti a me, fuori dal parco, potevo vedere l’insegna di una tabaccheria. In genere le tabaccherie non hanno segni distintivi o insegne, se non la grande T, questa invece aveva sul portale, a semicerchio, scritto il mio cognome: ...evich.
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