mercoledì 21 maggio 2008

Salutare natica 6


“Carissimo, mi dica, come si trova nella mia città?”.
“Non sapevo fosse di quelle parti”.
“Come va? la trovo bene, mi faccia vedere”.
Ero abituato ormai, non mi procurava più imbarazzo slacciare il pantalone, abbassare ogni cosa e porgere le natiche in faccia al professore che, seduto sul suo sgabello, con una grande lente, esplorava ogni piega del mio sedere.
“Non male, c’è qualcosa qua e là, ma non male, mi aspettavo peggio”.
“Forse ho un poco esagerato”.
“Ma no, può essere molto fastidioso, e poi, lei, è davvero recidivo!”.
“Recidivo, recidivo”, ripetevo fra me e me. “Recidivo”. Doveva avere a che fare con qualcosa che mi aveva detto il capo.
“Lo sa dottore, anche io avrei bisogno di un bella lente d’ingrandimento, da un po’ di tempo mi soffermo su cose così piccole...”
Allora sospenda il..., metta solo una volta al giorno il..., prenda anche del..., un cucchiaio dopo i pasti, ma soprattutto camminare, cantare, fischiettare!”.
“Professore, posso farle una domanda? Da che cosa dipende quella malattia in cui la pelle del viso si disquama e prende un po’ di rosso e bianco fino alle guance? Penso si chiami psoriasi”
“Può avere diverse cause, ma guardi che le regalo, io non la uso più”. Da un cassetto tirò fuori una lente di ingrandimento.
Misi la lente davanti agli occhi e tutto quanto sparì alla mia vista fino a quando non avvicinai il palmo della mano.
Cominciavo a preoccuparmi, erano passati tre giorni e mi rimaneva oscuro il contenuto del discorso fattomi dal capo. Era la prima volta che mi capitava qualcosa del genere. Se fossi stato anziano, sarebbe stato un segno preoccupante di cedimento mentale, ma siccome vecchio non ero, doveva essere il segno di un cedimento di altro tipo, un cedimento assai grave, che ora mi metteva in seria difficoltà, se non in pericolo, addirittura. Indossavo la stessa giacca da diversi giorni e anche questo non era una cosa buona; cambiare d’abito frequentemente e stile di abbigliamento, era la norma di comportamento sempre consigliata e, considerata la mia vanità, quella che meno mi infastidiva. Certo, molto meno che mantenere un peso-forma o sottopormi ai soliti allenamenti, sempre in luoghi e orari diversi, se all’aperto, e in almeno tre palestre differenti di luoghi distanti fra loro, se al chiuso. Era stato proprio mentre stavo uscendo da uno di questi centri-fitness, che per un rapido movimento, la tasca della giacca aperta aveva urtato contro il cristallo della porta scorrevole. Il rumore secco e violento dell’urto di un oggetto metallico aveva spaventato anche me; mi sembrò un caso che la porta non fosse andata in frantumi; diverse persone si voltarono per guardare e io stesso mi voltai, sorpreso. Ero stato io, che uscendo non avevo lasciato tempo ai sensori della porta di mettere in funzione il meccanismo di apertura, così che non si era aperta in modo completo. Era stata la lente d’ingrandimento che avevo dimenticato nella tasca a sbatterci contro.
Mi ero infilato nel canneto per curiosità: perché camminare, sfiornado quegli alberi flessibili senza chioma, mi ricordava un romanzo letto quando ero adolescente. Volevo insinuarmi, almeno una volta, in un posto senza pensare troppo a quello che avrei potuto trovare. Una “giungla” vicino casa era una scoperta che non mi aspettavo di fare. Il terreno si faceva sempre più morbido, sentivo di camminare come su una spugna. Il rumore delle canne era secco, il mio ondeggiare, cercando fessure che non c’erano, spezzava rumorosamente la quiete. E chi ti trovo dall’altra parte del canneto? E che ci faceva lì, dall’altra parte del canneto, a cinquecento chilometri da dove l’avevo incontrata la volta precedente? Dove mi aveva portato la mia esplorazione l’unica volta in cui avevo dismesso i panni di testa di cuoio? Mi aveva portato alla precaria abitazione della cantante kosovara.
6 continua

04/08 Lui, vent'anni dopo, continua a sognare